Dalle baracche al Martucci

DALLE BARACCHE AL MARTUCCI

(Luoghi, persone e voci)

Un interessante contributo, pieno di colore e calore, del nostro concittadino in Roma Vincenzo Pagano, classe 1947, colonnello della riserva, che in prima persona visse quel periodo in coda alla seconda guerra mondiale che va dalle “baracche” per i senza tetto alla ricostruzione.

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La città di Foggia durante l’ultimo conflitto assunse un ruolo militarmente strategico. Situata al centro del Tavoliere, era vicina ad alcuni campi di aviazione e il suo grande nodo ferroviario controllava le comunicazioni tra i maggiori centri italiani.

Per questi motivi venne quasi completamente distrutta da numerosi bombardamenti che decimarono la popolazione.

Alla fine del conflitto, Foggia contava migliaia di morti e una grossa parte del patrimonio edilizio risultava distrutto e malamente danneggiato.

Mio padre, classe 1925, assunto dalla Ferrovie dello Stato all’età di 16 anni con la qualifica di frenatore, divenuto poi conduttore, si sposò nel settembre del 1946.

Anno 1950. Non so dove è stata scattata, mio padre è il secondo da destra.

In quell’anno la situazione abitativa era tragica. Migliaia di famiglie vivevano in abitazioni di fortuna: nelle cosiddette grotte, negli scantinati degli edifici e finanche nei piani terra dei ruderi delle palazzine bombardate dove, ricordo benissimo, sino alla metà degli anni Cinquanta mia madre mi mandava a comprare la carbonella, la candeggina, le mollette dei panni e altri generi di prima necessità.

Altre famiglie vivevano nelle baracche, sparse in varie parti della città, che in precedenza avevano ospitato militari di passaggio e nelle cosiddette Casermette ubicate poco fuori il centro urbano.

Stante la situazione, facendo buon viso a cattivo gioco, mio padre decise di andare a convivere coi genitori e due fratelli celibi che occupavano tutto il primo piano di una palazzina sita in Via Diomede, prospiciente il Mercato Ginnetto, nei pressi del Conventino.

I miei genitori nell’unica foto della casa in Via Diomede. 

L’abitazione era però in affitto perché la casa natia di proprietà, situata nella stessa via, era stata rasa al suolo dai bombardamenti.

Nello stesso appartamento si sistemarono anche la sorella sposata e il relativo consorte. Un anno dopo gli occupanti divennero dieci perché nacquero il mio fraterno cugino Raffaele e lo scrivente.

Nel 1950, come una doccia fredda, giunse la notizia dello sfratto da parte del proprietario perché, a suo dire, l’appartamento serviva ad una sua figlia che si doveva maritare.

I nonni presero in affitto una masseria nella zona Casermette. Il mio cuginetto si trasferì con la famiglia al Borgo Incoronata, sede degli uffici dell’Opera Nazionale per i Combattenti dove suo padre era impiegato mentre mio padre ebbe la “fortuna” di ottenere dal suo datore di lavoro [F.S.] l’assegnazione di un locale 4 metri per quattro, all’interno nelle cosiddette baracche ferrovieri, site nei pressi della stazione.

Ricordo ancora, con un pizzico di nostalgia, l’indirizzo: Via Montegrappa, Baracca “F”, interno 3!

La scelta delle baracche fu obbligata sia perché, rispetto all’immediato dopoguerra, la situazione abitativa non era affatto cambiata, sia perché le poche case disponibili sul mercato erano oggetto di una feroce speculazione e gli affitti rasentavano le 30 mila lire mensili, corrispondenti allo stipendio medio di un ferroviere.

Avrebbe dovuto essere una sistemazione temporanea in attesa che i prezzi degli affitti si fossero calmierati ovvero nella speranza di ottenere l’assegnazione di una delle tante case ferrovieri, ubicate nella zona stazione e dintorni, alcune delle quali erano vuote in attesa di lavori di ristrutturazione per i danni subiti dai bombardamenti o per vetustà.

Le cose però non andarono nel verso giusto perché le poche case ferrovieri, che di volta in volta si liberavano, venivano assegnate ai nuclei familiari più numerosi del mio.

Nel frattempo la famiglia cresceva e nel 1954 eravamo in cinque a vivere ancora nello stesso angusto locale.

Parafrasando la nota trasmissione di Marzullo, provo ora a descrivere, in ordine sparso, i momenti di vita vissuti che in questo momento mi affiorano alla mente.

Le baracche insistevano su una piattabanda di calcestruzzo, il tetto in lamiera era a due falde spioventi. Varcati un paio di gradini, s’incontrava un corridoio, che si sviluppava a destra e a sinistra, lungo il quale erano disseminate le porte di accesso ai vari alloggiamenti: un unico vano a famiglia. Solo un alloggio era composto da due vanied era stato assegnato a una famiglia molto numerosa.

In questa dimora di fortuna, simile ad una carrozza ferroviaria, alloggiavano fra i sei e gli otto nuclei familiari. In fondo al corridoio, sul lato destro, c’era un ambiente di uso comune, abbastanza grande dotato di un lavabo, un bagno e una cucina in muratura scarsamente usata perché, per evitare turni estenuanti, le donne cucinavano fuori dalle baracche, allestendo per tempo la propria “fornacella” a legna o carbone. Il  fuoco veniva tenuto vivo usando i caratteristici ventagli artigianali, fatti con le penne di tacchino, che si acquistavano al mercato del Venerdì o si barattavano con lo straccivendolo che, col suo carretto trainato a mano, passava periodicamente da quelle parti.

Altro personaggio che si vedeva di tanto in tanto, era un vecchietto, barba e ciglia irsute, un logoro cappello d’Alpino, un cappottone unto e bisunto, un sacco in spalla, ScimmSciamm mi pare lo chiamassero, che urlando a squarciagola con voce cavernosa, vendeva i “cardùneattannùte”.

Postino – Foggia 20 febbraio 1956

Le pareti divisorie fra i vari alloggiamenti erano anch’esse in tavole di legno, non raggiungevano il soffitto, terminavano ad una certa altezza per cui la privacy, a dispetto delle leggi sulla riservatezza al di là da venire, era considerata un optional. Le fessure più grosse venivano “zeppate” con fogli di giornaleche venivano anche usati, misti ad altro materiale cartaceo, per tappezzare le pareti.

In siffatte condizioni si soffriva maledettamente il caldo,il freddo e l’umidità. Per il caldo c’era poco da fare, di nottesi dormiva con porte e finestre aperte,di giorno, invece, le donne, nei brevi periodi di pausa, si “sosciavano” con i ventagli alla veneziana, alcuni molto belli,in merletto o tela con le stecche in osso o in celluloide, mentre gli uomini si asciugavano continuamente la fronte con i fazzoletti.

Io con i miei genitori

Per il freddo si usavano i bracieri d’ottone con i caratteristici asciugapanni in legno o metallo su cui si mettevano ad asciugare i pannolini dei bambini, spesso lavati in modo approssimativo o non lavati affatto, che emanavano il caratteristico “odore”che, invano, si cercava di neutralizzare con le bucce di mandarino.

In uno di questi bracieri, avevo tre anni e mezzo, ci cascai dentro la volta in cui mia madre, dovendosi assentare, mi affidò all’”attenzione” di una vicina. Porto  ancora i segni di una vistosa cicatrice che dall’avambraccio, con la crescita, si è spostata all’altezza del gomito. Se mia madre non si fosse assentata l’incidente non sarebbe occorso perché, nel nostro locale, non si usava il classico braciere in rame, a volte lasciato incustodito, ma uno scaldino con braciere e cassetto raccogli-cenere in stagno, protetto da un telaio in legno, che si era fatto spedire, con mezzi di fortuna, dalla sua natia Amalfi. Non era molto pesante e veniva usato anche come scaldaletto.

Per proteggerci, invece, dal freddo, dalla caduta di calcinacci e dall’umidità mia nonna aveva confezionato, con i resti di una di una coperta militare e degli avanzi di nastro in raso, delle cuffie simili a quelli della nonna di Cappuccetto Rosso per tutti i componenti della famiglia. Quando le indossavamo eravamo ridicoli ma ci hanno protetto per anni da sinusiti e raffreddori!

I capi famiglia delle baracche non erano tutti ferrovieri ma c’erano degli “infiltrati” per necessità, tollerati dalle Ferrovie dello Stato e benvoluti dagli altri abitanti perché si erano facilmente integrati in quella difficile realtà.

Il più benvoluto da noi ragazzini era MàstePèppe, in età avanzata e senza prole, perché con i manici delle scope che noi rubavamo alle nostre madri o raccattavamo in giro ci costruiva “a gratis”,oltre ad artistici pugnali e spade in legno,le migliori “màzze e bustìche”, invidiate da tutti i coetanei del circondario.

C’era anche un anziano mutilato di guerra che non si sa bene in quale baracca vivesse e in che modo si procacciasse da vivere. Egli si trascinava tutto il giorno con una stampella ed era sovente vittima di sfottò e lanci di sassi da parte delle bande di ragazzini. Era sempre emarginato, sporco e malvestito. Si ricordavano di lui soltanto in prossimità delle elezioni.

In quelle occasioni qualcuno non proprio disinteressato gli portava dei viveri provenienti dal piano Marshall (pasta nera, formaggio fuso, latte in polvere etc.), qualcun altro gli procurava dei vestiti decenti e, il giorno delle votazioni, veniva condotto al seggio in carrozza, dopo essere stato preventivamente indottrinato sul simbolo da barrare.

Nella mia stessa baracca viveva un signore sulla trentina, di salute cagionevole con moglie e famiglia numerosa che, saltuariamente, faceva la maschera in un cinema. Qualcuno gli aveva regalato una vistosa giacca rossiccia di raso e, quando tutto fiero la indossava, capivamo che, complice un invitato, si preparava a fare l’imboscato in qualche matrimonio per poter mangiare qualcosa e rientrare velocemente e furtivamente a casa con in mano una “mappatella’’ contenente gli avanzi del pranzo nuziale ben accetti dal resto della famiglia.

A destra mia madre con una sua amica.

All’epoca soprattutto al Sud le donne erano abbastanza sottomesse agli uomini, il femminismo e il Sessantotto erano di là da venire e non era raro vedere donne di ogni età con i segni di lividi sulle braccia o sul volto per aver ricevuto, spesso per motivi futili o come si diceva “educativi”, delle carezze troppo affettuose da mariti, genitori o fratelli.

Molto più “evoluta”, invece, era una coppia di Veneti senza prole che noi chiamavamo i Giargianesi perché, quando parlavano, non capivamo un’acca.

Il marito che non si sa che mestiere facesse, la sera a volte rincasava, barcollando, vistosamente alticcio e la moglie, sistematicamente, lo rincorreva con la scopa in mano e quando lo raggiungeva erano botte da orbi.

Il marito, come nei film western, cercava riparo dietro gli angoli delle baracche ma in un’occasione, venutosi a trovare in campo aperto, non trovò di meglio che ripararsi, ansimante per la lunga corsa e per la paura, dietro la gonna di mia madre.

Mia madre in dialetto amalfitano, la signora in quello veneziano, non so come feceroa capirsi, ma gli è che le invocazione di clemenza di mia madre furono accolte e la giustiziera della notte, borbottando qualcosa d’incomprensibile, ritornò a casa col marito che la seguiva mogio-mogio, con la coda tra le gambe, come un cagnolino!

Infine circolava la leggenda metropolitana di una famiglia numerosa un po’ sfortunata con gli uomini. La capo-famiglia era rimasta vedova in giovane età ma, per fortuna, godeva di pensione, una figlia nubile era stata abbandonata dal futuro sposo alla vigilia delle nozze e l’altra, con prole, era rimasta senza mezzi di sostentamento perché il marito, avendo vinto un milione di lire al totocalcio, si era dileguato con una signorina non so quanto più attraente della moglie legittima che io ricordo essere una bella donna!

A differenza di quanto avviene nella casa del Grande Fratello, la vita nelle baracche, pur se tra mille disagi e privazioni si svolgeva in modo civile e sereno. Mai uno screzio, una scenata di gelosia, una discussione degenerata in rissa. Al contrario, si faceva a gara per aiutarsi reciprocamente nel momento del bisogno.

La moglie di MàstePèppe faceva gratuitamente da baby-sitter allorché i genitori avevano necessità di allontanarsi. Suo marito, in cambio di quattro soldi, aggiustava sedie e costruiva piccole panche per i bambini, i famosi “banchetìlle”, oppure telai in legno per appendere pentole, coperchi e altri utensili da cucina. Le donne più esperte impartivano lezioni di cucito, ricamo e cucina a quelle più giovani e si organizzavano in turni per pulire la zona antistante l’ingresso e i locali di uso comune, gli uomini fornivano aiuto e consulenza per piccole riparazioni o lavoretti domestici più pericolosi. 

Molto efficiente era l’assistenza medico-sanitaria fai da te. Per l’orzaiolo c’erano l’esperta nella pratica per togliere il malocchio oppure quella che usava degli aghi disinfettati con la fiamma di un fiammifero. Per le eruzioni cutanee la puzzolente pomata ittiolo era dispensata in quantità industriale, per le sbucciature, invece, alcool o tintura di iodio, penicillina in polvere e bende improvvisate strappando coi denti vecchie resti di lenzuola che definire sterili era un eufemismo ma erano altri tempi e, del resto, le stesse bende venivano usate, periodicamente, dalle donne ancora fertili per altri scopi. In caso di animaletti indesiderati sul cuoio capelluto una bella spruzzata di Flit e passava la paura!

La mia famiglia al completo. Il quarto figlio era in itinere

Poiché in quelle dimore abitavano in prevalenza coppie giovani e… non c’era ancora la televisione, i lieti eventi erano molto frequenti e, nonostante si partorisse ancora in casa, l’organizzazione non aveva nulla da invidiare agli ospedali dei telefilm americani.

I ragazzi più grandicelli o i rari adulti, occasionalmente presenti, si recavano a piedi o con mezzi di fortuna a rintracciare la levatrice che,spesso, arrivava a fatto compiuto.

I figli piccoli della partoriente venivano allontananti dal loro locale e tenuti a bada dalle vicine di casa. Il futuro papà, quando non era in servizio, i turni di lavoro erano implacabili e non era previsto il congedo per paternità, passeggiava nervosamente lungo il corridoio fumando mille sigarette, le donne si adoperavano animosamente come tante api operaie.

C’era un continuo via vai: chi portava bacinelle colme di acqua calda, chi bende, chi cuffie e corredini per neonati, chi forbici a volte insanguinate, chi con il rosario in mano pregava davanti un altarino della Madonna affinché andasse tutto bene.

Appena si sentiva il primo vagito era festa grande. L’entusiasmo era esagerato se si trattava di un maschietto, più contenuto se era nata una femminuccia e qualcuno, tra il serio ed il faceto si lasciava scappare la fatidica frase: “U vi’, U vi’ è arrevàte  n’ata cambiàle da paga’!”.

Noi ragazzini soffrivamo poco i disagi che comportano il vivere in un’abitazione di fortuna, al contrario crescevano sereni e avevamo un sacco di amici. Potevamo divertirci a nostro piacimento, saltando nelle pozzanghere, giocando agli indiani, a guardia e ladri, a nascondino ovvero andando a caccia di lucertole nel retrostante boschetto. Ogni tanto qualcuno veniva infilzato con il dardo degli archi che costruivamo con le stecche degli ombrelli ma, grazie alla protezione di Santa Pupa, non si trattava mai di niente di grave e poi c’era sempre l’assistenza medico-sanitaria fai da te già citata

Cugini e compagni di gioco

Si svolgevano anche interminabile partite di lippa, si giocava con le biglie di vetro, coi tappi delle bottiglie di birra, con le figurine dei calciatori di cartone accartocciate facendo a gara a chi ne capovolgesse di più, dando un colpo ben assestato. C’erano anche giochi sedentari di abilità usando i noccioli delle pesche o dei sassolini.

Di partite al pallone ne ricordo meno perché pochi si potevano permettere di comprare il pallone o forse perché ero… scarso! Probamente era più veritiera la seconda ipotesi per cui mio padre, vedendomi eterno spettatore, fu costretto a comprarmi un pallone. Come stabilito da una legge non scritta, il proprietario del pallone gioca sempre ma la mia  convocazione durava il tempo della durata del pallone che inevitabilmente si sgonfiava o veniva sequestrato dai vicini delle case popolari a cui sistematicamente rompevamo i vetri. Poiché mio padre non poteva comprarmi palloni in eterno fui costretto a imparare a tirare quattro calci ma mi mettevano sempre in porta o al massimo in difesa.

L’unico inconveniente di tale libertà d’azione era dovuto al fatto che all’ora di pranzo o di cena, non tutti se li potevano permettere entrambi, bisognava tornare alla base puntuali altrimenti erano salutari “taccheriatùne”.

Festegiando il carnevale, i costumi erano stati tutti confezionati a mano dalla mia nonna foggiana

Non c’erano ancora cellulari ma esistevano altri mezzi di comunicazione altrettanto efficaci. I papà fischiavano col metodo tradizionale oppure si mettevano due dita in bocca e lo facevano “alla caprara”. Ognuno di noi era in grado di riconoscere il proprio richiamo. Le mamme, invece, gridando a squarciagola, ma svogliatamente a mo’ di litania ripetevano il nome dei loro pargoli: Tonino, Cuncètte, Mechèle, Giggino, Pasqualino! Sembrava di assistere a una funzione religiosa. Meno male che erano nomi brevi e facili da pronunciare. Ve l’immaginate se i loro figli si fossero chiamati, EnricoMaria, Pier Tommaso, Massimiliano o Sophia con l’acca?

Anche gli adulti cercavano di organizzare nel modo migliore il tempo libero. I locali comuni in fondo al corridoio venivano usati come sala riunioni. Erano frequenti partite a carte con bottiglie di vino e birra al seguito per la pratica, al termine delle varie mani, chiamata, se non ricordo male, del “padrùne e sòtte”.

Molto ben fatte erano le cene conviviali dove ognuno portava qualcosa. Ricordo le abbuffate di “ciammaruchelle” che avevo imparato anch’io a mangiare utilizzando una spilla da balia, di interiora molto pepate (coratelle, rognoni, cuore, fegatini), di teste di agnello al forno, di “turcenìlle” preparati in casa. A tale proposito ricordo che le donne, nella fase della preparazione appendevano gli intestini ai fili dei panni dopo averli rivoltati e lavati.

Di tanto in tanto si organizzavano anche feste da ballo utilizzando la radio a valvole o il giradischi a tutto volume di chi abitava nei pressi della “sala da ballo”. Il rinfresco era costituito da rosolio e pastarelle fatti in casa e da qualche gassosa e  da un pugno di caramelle per i bambini ma erano talmente vetuste, a quei tempi non c’era la data di scadenza, che si presentavano tutte appiccicose, era difficile scartarle tanto che quasi sempre le mangiavamo “scòrze e tùtte” per poi sputare la carta quando ci riuscivamo!

Spesso per scarsità di uomini o perché non sapevano ballare vedevo anche le donne ballare i lisci tra di loro. Il momento più divertente era quando Cumpare Lilino, il più allegro e simpatico collega di mio padre, comandava la quadriglia in un linguaggio a mezza strada tra il Foggiano, il Napoletano e un Francese alquanto improbabile.

Ricordo ancora alcuni ordini: I fèmmeneannànze e l’umenearrète, O cuntrè, Ciangè la fàmme, Annànze, Arrète, U’ passamàne.

Cumpare Lilino era anche un acceso tifoso della squadra di calcio locale e non si perdeva una partita casalinga. Quando lo vedevo tornare dallo stadio gli chiedevo sempre: “Chi ha vinto?”. E Lui, raggiante: “U’ Fògge, no,  che me l’addumànne a fa’! U’ Fòggeeje nu squadròne!”. All’epoca il Foggia, dopo una fugace apparizione in B e una retrocessione in C per illecito sportivo, era finito in quarta serie. Non sapevo che c’erano anche partite fuori casa dove magari qualche partita la perdeva e quando i miei amici mi dicevano che erano tifosi  della Juventus, del Milan e dell’Inter io, ingenuamente, dicevo loro: “Ma siete proprio stupidi? Tifate per le squadre del Nord e non per il Foggia che vince sempre!” Non vi dico le risposte che “m’abbusc’kavo”, qualcuno si voleva finanche “scompagnare”!

Da adulto però non ho cambiato idea, continuo a tifare per il Foggia e quelli che tifano per le altre squadre, parafrasando il grande Gianni Brera, li definisco Ascari! E adesso, cari amici Juventini, Milanisti e tifosi di squadre affini, visto che non abbiamo più l’età per scompagnarci, toglietemi pure l’amicizia da facebook!

Un altro episodio esilarante riguarda la programmazione al Cinema Ariston (allora gestito dal Dopolavoro Ferroviario) del primo film in cinemascope della storia del cinema: La Tunica[1] con Richard Burton.

In quel cinema i ferrovieri pagavano solo 60 lire e mio padre quando era libero dal servizio, su invito di mia madre che così, almeno per due ore, aveva un figlio in meno da accudire, mi portava con se al cinema. Naturalmente per non farmi annoiare non mi faceva vedere i film della Loren, della Lollobrigida della Monroe o quelli strappalacrime della coppia Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson ma doveva accontentarsi di assistere a film western, di cappa e spada o d’avventura finendo per diventare, suo malgrado, un appassionato di questo genere di film che ha poi continuato a rivedere in televisione sino a tarda età.

Un pomeriggio MàstePèppe, mi chiamò e mi disse: “Uaglio’ di’ a tuo padre di portarti all’Ariston a vedere una cosa modernissima che è la fine del mondo: Lu cinema cu la scopa, ripeti con me, lu cinema cu la scopa, curre, va va che l’agghie appena viste arriva’ da ferrovia!”. Io corsi da mio padre e dissi in perfetto italiano (ci teneva tanto che parlassi in Italiano, non l’ho mai udito parlare in dialetto in mia presenza): “Papa’ mi porti a vedere il cinema con la scopa?”. Mio padre che era abbastanza erudito pur non avendo fatto il militare a Cuneo, sorridendo, rispose: “Certo, intendevi il cinemascope, un film proiettato su uno schermo molto grande di forma rettangolare, ti ci porto dopodomani quando rientro da Roma e ho il pomeriggio libero”.

Mio padre mantenne la promessa e fui entusiasta della scena del duello del protagonista contro un legionario. C’era il suono stereofonico, si sentiva distintamente il tintinnio delle spade e anche tutti gli altri suoni ed effetti erano molto realistici.

Il giorno seguente andai da MàstePèppe e mi feci costruire un gladio in legno uguale a quello di Richard Burton, un vecchia cintura in cuoio rimediata da qualche parte ed una guaina confezionata da mia nonna con un pezzo di tela cerata completarono l’opera. Parafrasando il titolo di un vecchio film del 1938, chi era più felice di me?

Facciamo un passo indietro.

Il 28 febbraio del 1949, il parlamento italiano aveva approvato un piano per la realizzazione di alloggi economici, noto come piano INA-Casa o piano Fanfani, all’epoca Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, che ne fu ideatore e promotore.

Lo scopo del piano era quello di rendere disponibili nuove e confortevoli abitazioni per i lavoratori delle classi medio-basse.

Programmato inizialmente con durata settennale, venne prorogato per ulteriori sette anni fino al 1963 allorché, alla gestione INA-Casa, si sostituì la GESCAL (Gestione Case per lavoratori).

Il 7 luglio, nei pressi di Roma fu inaugurato il primo cantiere, alla fine di ottobre ne erano in funzione oltre 650 in diverse parti d’Italia. A pieno ritmo il piano era in grado di produrre 2800 vani a settimana.

Nei 14 anni di vita furono aperti 20 mila cantieri, impiegando ogni anno 50 mila lavoratori edili e coinvolgendo un terzo dei 17 mila architetti e ingegneri italiani in attività in quegli anni. In totale furono costruiti quasi 2 milioni di vani a beneficio di oltre 350 mila famiglie italiane.

Nonostante il suddetto piano procedesse celermente e anche a Foggia e provincia, probabilmente, erano già stati aperti i primi cantieri o ultimate le prime case INA-casa, nel 1955 c’erano decine di famiglie di ferrovieri che abitavano ancora nelle baracche di Via Montegrappa.

Finalmente anche per loro giunse la buona novella. Infatti fu comunicato loro che la neo costituita INA-Casa Ferrovieri aveva già finanziato la costruzione di un primo lotto di abitazioni in località Rione Martucci, da destinare con priorità assoluta agli abitanti delle baracche.

Il lotto di abitazioni INA-Casa Ferrovieri in località Rione Martucci – Foggia.

I lavori iniziarono da lì a poco e non potete immaginare la gioia di mio padre e dei suoi colleghi. Non si parlava d’altro. Mio padre si recava periodicamente a controllare lo stato di avanzamento dei lavori e a volte ci andavo anch’io approfittando di un passaggio sullo “sciarabàlle” di mio nonno che abitava in una masseria dalle parti delle Casermette.

Appena varcato il sottopassaggio di Via Scillitani, gli edifici saltavano subito all’occhio, perché si trovavano su un altura e il sole che si rifletteva sui muri maestri di tufo bianchi conferiva loro un aspetto da fiaba.

Dopo un anno e mezzo i lavori furono completati.

La piastrella in ceramica posta sul prospetto della prima palazzina del complesso edilizio INA-CASA Ferrovieri al Rione Martucci.

Una singolare caratteristica del progetto INA-Casa fu quella di far apporre, su tutti gli edifici realizzati, delle formelle ceramiche policrome che alludessero al tema del progetto ovvero, più in generale, al tema della casa come luogo felice. Infatti, l’applicazione delle targhe sugli immobili, per le quali erano stabilite le misure, la posizione e i prezzi massimi, era una delle condizioni per il rilascio del certificato di collaudo. Dovevano riportare esplicitamente la dicitura INA-Casa (nel nostro caso INA- Casa Ferrovieri) ed erano poste in corrispondenza dei portoni d’accesso alle scale, delle testate o dei punti focali degli edifici.

 

Per la loro realizzazione fu bandito un apposito concorso che annoverò fra i vincitori i più grandi artisti dell’epoca quali Alberto Burri, Publio Morbiducci, Duilio Cambellotti, Tommaso Cascella, Piero De Laurentis, Piero Dorazio, Irene Kowaliska,  Guerrino Tramonti ed altri. Le formelle delle palazzine del Rione Martucci raffiguravano una formica ma non sono riuscito a scoprire chi ne fosse stato l’autore.

Il 14 marzo del 1956 arrivò la comunicazione ufficiale che mio padre aveva occupato un posto utile nella graduatoria provinciale, il 3 ottobre ricevette la lettera di assegnazione, il 9 ottobre partecipò all’assemblea degli assegnatari e il giorno dopo alla cerimonia per la consegna delle chiavi le cui fasi salienti furono riprese in un documentario.(Cliccare qui per vedere il filmato)

Non ero presente alla suddette cerimonia perché mi trovavo a scuola. Ricordo solo che al rientro a casa trovai mio padre raggiante con le chiavi della nuova casa in mano che mi preannunciava l’imminente trasloco.

Anche del trasloco, avvenuto suppongo pochi giorni dopo, non sono in grado di fornire una testimonianza diretta. Era presente invece mio fratello che da me interpellato mi ha riferito che fu usato un carro dal pianale piatto, con le ruote gommate, trainato da uno o due cavalli. Il proprietario del carro fu contattato tramite il cognato di mio padre, Michele Russo, per noi Zio Michelino, l’ultimo dei maestri carradori di Foggia a cui recentemente è stata dedicata una via.( Per la testimonianza di mio fratello cliccare qui)

Quel giorno di buon mattino, come al solito, mi diressi a piedi verso Viale XXIV Maggio dove era ubicata la scuola elementare Garibaldi che frequentavo.

Mi fu detto soltanto che all’uscita avrei dovuto percorrere tutta Via Montegrappa, immettermi su Via Scillitani e attraversare l’unico sottopassaggio allora esistente. Subito dopo avrei visto sulla destra di Viale Fortore tre palazzine adagiate sopra un montaruozzo e sarei dovuto entrare nel portone sulla sinistra della seconda palazzina, salire sino al terzo piano e bussare con le mani al portoncino di destra perché il campanello elettrico non era ancora funzionante.

Io eseguii diligentemente le istruzioni e, quando arrivai a destinazione, il trasloco era già terminato. Mia madre stava provvedendo a spolverare e sistemare i libri, i vestiti, le scarpe la biancheria e le poche masserizie che avevamo nella vecchia dimora.

Mio padre, prendendomi per mano, mi fece visitare in lungo e in largo l’appartamento che odorava ancora di vernice e di calce, mi indicò quale sarebbe stata la mia cameretta da condividere con mio fratello più piccolo e mi disse che la sorellina di 2 anni avrebbe continuato a dormire nella sua culla ai piedi del letto matrimoniale.

Quando entrammo nel bagno, indicandomi il bidet, mi disse in tono scherzoso, strizzando un occhio: “Mi raccomando avvisa tuo fratello e tua sorella che questo non è il lavandino basso per i bambini!”. Io annui e scoppiammo a ridere all’unisono.

L’appartamento, pur essendo di tipo popolare, era ben progettato, spazioso, luminoso e ben accessoriato, come si evince dal verbale di consegna che sono riuscito a reperire: “Appartamento costituito da n. 5 vani legali e composto da n. 3 vani utili oltre bagno, cucina, disimpegno, ripostiglio, terrazze; pavimento in marmette granagliate; pareti finite a calce e colori; bussole in legno smaltate di bianco a una o due partite di cui alcune piene e altre in vetro; pareti della cucina e del bagno fornite di balze maiolicate; finestre con sportelli a vetri e serrande avvolgibili, verniciate a olio e colore nel lato interno e in quello esterno; cucina accessoriata di lastra di pietra di Trani con supporti e cappa,  scalda acqua elettrico e lavello in gres porcellanato; bagno fornito di vaso da scarico, lavandino e bidet in porcellana e vasca da bagno a sedile di ghisa porcellanata”.

Un aspetto curioso era dovuto al fatto che da tutti i balconi delle palazzine, a poche centinaia di metri di distanza, era visibile il passaggio di tutti i treni della tratta Foggia Napoli e Foggia-Bari sia all’andata sia al ritorno.

Soprattutto i primi tempi, quando noi eravamo ancora piccoli, mio padre, allorché il convoglio arrivava all’altezza delle nostra palazzina era solito aprire un finestrino e sventolare un fazzoletto per salutarci e avvisarci che stava arrivando mentre mia madre ne approfittava per imbandire la tavola. Ma l’idea non era proprio originale ed altri colleghi facevano la stessa cosa. Come è facile intuire, a quella distanza e con la stessa divisa tutti i ferrovieri  sembrano uguali e, il più delle volte, si prendevano fischi per fiaschi. Alcune mogli impavide buttavano addirittura la pasta… inutilmente! A mia madre, a parte l’abbaglio con conseguente inutile attesa, non capitò mai di buttare la pasta anticipatamente perché mio padre la pretendeva al dente e scherzando dava l’ordine fatidico in amalfitano: “Jette ‘e maccarùne!” solo dopo che si fosse cambiato d’abito e lavato le mani.

I primi mesi non furono facili, mancavano ancora l’allacciamento elettrico e l’acqua corrente. Mio padre fu costretto a comprarsi una bicicletta di seconda mano per raggiungere la stazione e dovette affrontare molte spese per comprare arredi, lampadari e una nuova cucina a gas. Io dovetti abituarmi a svegliarmi prima per raggiungere la scuola in tempo e, per poter continuare a frequentare l’oratorio della Parrocchia Madonna della Croce, mi ci voleva più tempo da sottrarre allo studio per cui le mie frequentazioni divennero meno assidue.

I maggiori disagi li aveva mia madre, che in quel periodo era incinta del quarto figlio, perché nel quartiere c’era soltanto un modesto negozio di alimentari, una rivendita di Sali e tabacchi, un’ officina che riparava biciclette e forse una rivendita di vini. Per la carne, la frutta e verdura, il vestiario e le medicine bisognava andare in città o meglio come era consuetudine dire allora “bisognava andare a Foggia”.

Da sinistra: mio padre, sua sorella e consorte che passeggiano in via V. Lanza a Foggia

Per fortuna mio padre tra un viaggio e l’altro provvedeva, a volte da solo, a volte in compagnia della mamma a fare gli approvvigionamenti per non farci mai mancare nulla. A volte quando mio padre era in viaggio mi recavo in centro a fare degli acquisti improcrastinabili.

Col tempo ci si organizzò meglio, parecchi acquistarono biciclette o motorini e si cominciarono a vedere le prime Vespe. Io ogni tanto scroccavo qualche passaggio sulla canna della bicicletta di mio padre o di qualche collega oppure sul calesse di mio nonno allorché, sovente, il sottopasso si allagava e mio nonno accorreva in mio soccorso. Era molto divertente ed emozionante guadare il rigagnolo che si era formato e attraversare il sottopasso con l’acqua che arrivava sino al mozzo delle ruote.

I rapporti con il vicinato continuarono ad essere ottimi, nacquero nuove amicizie, consolidatesi nel tempo, e di li a poco sbocciarono anche i primi amoretti alcuni dei quali si trasformarono in matrimonio.

Col passare degli anni il quartiere si arricchì di qualche nuovo esercizio commerciale, sorse la quarta palazzina INA Casa, i due orti situati ai lati del comprensorio divennero terreni edificabili, fu costruita o ricavata da qualche manufatto esistente la scuola elementare e l’ormai ex-Rione Martucci assunse gradatamente l’attuale fisionomia.

Le rare volte che passo per Foggia faccio sempre un salto nel luogo dove erano ubicate le baracche, mi fermo sempre qualche istante in religioso silenzio ma, non appena il film della mia vita comincia a srotolarsi, lo riavvolgo immediatamente e mi allontano speditamente prima che i ricordi diventino rimpianti.

Ora che mia madre non c’è più e la casa è stata venduta chissà se mi succederà la stessa cosa con le palazzine INA-Casa del Rione Martucci!

[1]https://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=25927

 

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