FOGGIA: la donna e il lavoro

FOGGIA: la donna e il lavoro

(Antichi mestieri)

Di Raffaele de Seneen  e  Romeo Brescia

Un breve excursus, senza pretese, sul rapporto donna-lavoro di ieri e dell’altro ieri a Foggia e in terra di Capitanata, ben precisando che la donna nasce da sempre già con un lavoro assicurato, quello di madre, se vorrà avere figli, e quello di casalinga nel quale è stata relegata per secoli, non consentendo all’umanità di avvalersi e giovarsi delle sue  potenzialità  e capacità. Quanti cervelli sono stati tenuti nel sonno per tanto tempo!

La donna-madre-casalinga fosse stata pure lavoratrice, a parità di lavoro, percepiva una paga ridotta rispetto al’uomo.

Alcune tappe verso la civiltà e la parità:

  • Primavera 1946 le donne votano per la prima volta alle elezioni amministrative in poco più di 400 comuni
  • 2 Giugno 1946 Suffragio universale, le donne al voto per il Referendum Istituzionale e per eleggere l’Assemblea Costituente
  • 1970 legge sul divorzio
  • 1971 Legge sulla tutela delle lavoratrici madri
  • 1978 legge sull’aborto
  • 1981 Abrogazione delitto d’onore e del matrimonio riparatore
  • 1991 Legge della parità uomo-donna nel lavoro
  • 2009 Legge contro lo stalking

Antonio Lo Re (S. Vito dei Normanni 1857 – Foggia 1920)

Antonio Lo Re (S. Vito dei Normanni 1857 – Foggia 1920), scienziato, una vita dedicata all’attività didattica e alla ricerca scientifica nel settore dell’agricoltura, dà alle stampe nel 1910 un volumetto dal titolo “Le proletarie del Tavoliere”.Se fosse stato un quadro, sarebbe stato un quadro a tinte forti, se fosse stata una scultura, una scultura lavorata con ascia e scalpello.

Niente di irreverente, niente di criticabile, anzi, e solo così poteva venire fuori, e poteva essere consegnata a noi oggi,  la realtà di tempi poveri e tristi, di sottomissione, di duro e oscuro lavoro della donna-moglie-madre-lavoratrice, a volte ancora “figlia” perché in casa c’era da accudire anche agli anziani. Le abitazioni da dividere con gli animali, niente acqua, niente energia elettrica, niente.

Sette quadretti, sette monografie: “La contadina”, “La terrazzana”, “La capraia”, “La vignarola”, “La vendemmiatrice”, “La moglie del pastore”, “La castagnara”  e  “La donna di servizio”, uno spaccato realistico sulla condizione di vita della donna in quel mondo agro-silvo-pastorale. Un invito a leggerlo, per capire quanta distanza ci separa da quel tipo di vita e realtà.

Quasi tutto il mondo del lavoro dell’epoca, soprattutto quello femminile, è racchiuso in quei mestieri, quasi sempre di indispensabile supporto a quello dell’uomo, veramente rari gli spazi nelle professioni, forse qualche insegnante, maestra.

Residuano alcune attività tipicamente femminili, a volte a carattere stagionale, occasionale, riempitive, altre con carattere più continuativo e permanente, sempre di valido aiuto all’economia familiare, e indispensabili, in quanto unica fonte di guadagno, nel caso di donne non maritate o vedove.

Ne vogliamo ricordare alcune, molte scomparse, altre hanno trovato una diversificazione, un’evoluzione nel tempo, tanto che le prime, quelle dell’epoca, e le seconde, quelle praticate attualmente,  sono collegate solo da un filo, quello della memoria.

Prima, però, qualche altra considerazione.

Se l’uomo, al ritorno dal lavoro,  se ha un lavoro, se è stato “capato”  (scelto) per qualche giornata da bracciante (bracciale in origine)  può consentirsi di affogare stanchezza e delusioni fermandosi in una cantina davanti ad un boccale di vino, la donna lo aspetta a casa, leggendo negli occhi dei figli il tempo che passa, che è  fatto di stenti e di fame, in attesa di consumare, a volte, l’unico pasto della giornata.

Capogna Gaetana – (Foggia, 13 gennaio 1862 – 30 ottobre 1923) 

Da questo, anche, “La rivolta della fame” a Foggia del 28 aprile 1898. Una sommossa tutta al femminile; partono da “Borgo Santo Stefano”(zona dell’omonima chiesa situata oggi in via G. Urbano) soprattutto donne e ragazzi, a capo Capogna Gaetana affiancata da Paglia Anna Maria, due popolane, la prima  conosciuta con l’appellativo di Zia Monica che guida e incita la folla. In quell’occasione sarà data alle fiamme la sede del Comune, divelti i gabbiotti del dazio, assaltati  forni e mulini.

Ancora un salto indietro nel tempo, sulle tracce di un’attività lavorativa tutta “in rosa”.  Nel 1723 a Foggia viene istituito il Conservatorio della Maddalena (attuale sito dell’omonimo parcheggio), le donne lì accolte, “pentite” o comunque in stato di disagio e di bisogno, anche per autosostentamento, producono pasta fatta a mano, guanti, e dal 1834 lavorano alla trattura della seta, l’operazione che consente di ricavare il filo dai bozzoli.

Un lavoro cagionevole alla salute delle recluse-operaie in quanto dovevano operare in un ambiente surriscaldato da stufe in cui venivano inserite le crisalidi per provocarne la morte, e poi con le mani sempre nell’acqua calda per liberare i bozzoli dalla sericina e  per ricavare il capo-filo.

Per queste condizioni di lavoro una di esse (Agnese Mastrocchio) si ammalò gravemente, e il 14 febbraio 1849 il resto delle lavoranti protestò astenendosi dal lavoro.

A seguito della protesta, l’anno successivo, la filanda della Maddalena chiuse, e le macchine rimosse furono trasferite altrove.

 Lavoro femminile, protesta femminile in un’epoca in cui la parola sciopero se esisteva già, qui non era ancora conosciuta.Da notare inoltre, che l’evento (14 febbraio 1849) anticipa di parecchio tutte quelle azioni, movimenti e  lotte che portarono alle conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne. Quelle che poi troveranno la loro celebrazione nella Giornata Internazionale della Donna, l’8 marzo, più comunemente definita “Festa della Donna”, che affonda le sue radici in eventi come la morte di oltre cento persone, soprattutto donne, nell’incendio della fabbrica TRIANGLE (New York 25 marzo 1911) e nella manifestazione delle donne russe del 23 febbraio 1917 (l’8 marzo del calendario Giuliani) per la morte in guerra di due milioni di soldati russi.

Grazie alle “pentite” della Maddalena, possiamo affermare che le lavoratrici foggiane hanno un loro primato.

Nei primissimi anni del 1900, a Foggia, si iniziano ad affermare le prime Leghe di resistenza e di miglioramento, una delle prima, se non la prima, è la Lega dei contadini (braccianti) in cui la presenza femminile aumenta di numero ed importanza fino al punto di costituire una Lega delle contadine.

Durante il Primo Congresso dei Contadini pugliesi tenutosi a Foggia il 5 e 6 aprile 1902, nella seconda giornata, è una domenica, le cronache locali fanno rilevare la presenza delle donne.

Certamente manodopera femminile sarà stata impiegata nel tempo in quelle che venivano all’epoca indicate come “fabbriche”: quella delle liquirizia, quella della camomilla, quella della gassosa, quella del cotone (uno sgranatoio), della cera. Di queste ultime (cererie) Foggia, nel suo tessuto urbano, ne conserva ancora quello che resta, una di queste risale sicuramente a prima del 1820. Archeologia industriale degna di maggiore attenzione.

In anni più recenti la Cartiera di Foggia, e poi l’illusione industriale degli anni 50/60 con gli stabilimenti della Lanerossi e della Frigodaunia aprirono la strada del lavoro a molte donne. Gli stessi zuccherifici, che incentivarono la coltivazione della barbabietola da zucchero, agli inizi non meccanizzata, consentirono il forte impiego di manodopera femminile per quelle operazioni di scerbatura, raccolta e scollettatura.

Ma siamo arrivati ai giorni nostri e le cose, nel bene e nel male, sono totalmente cambiate. Quel che manca è il lavoro, per gli uomini e soprattutto per giovani e donne

 Passiamo, allora, come detto in premessa, all’elencazione di alcune arti e mestieri prettamente in “rosa”, di altri tempi.

La cutrara: confezionava coperte da letto pesanti, per vincere i rigori dell’inverno. All’intero, queste coperte [cùtre, mullettòne, cuèrta ‘mbuttìte] contenevano uno strato di lana.

La materassaia [‘a materassàre]: esperta nella confezione di materassi di lana che andava messa con perizia all’interno della grossa fodera per evitare scomodi ed antiestetici rigonfi. Con un lungo ago [l’àghe sacuràle] ed un filo di un certa consistenza faceva i bordi del materasso.

 La jungiara [‘a jungiàre]: utilizzando gli steli di giunco, una pianta che si trova presso i corsi d’acqua o in zone paludose, costruiva le “fiscelle”: cestelli più piccoli per porre a scolare la ricotta, più grandi per le forme di formaggio. Attività questa strettamente legata al fenomeno della transumanza.

Per ragioni igieniche, oggi, quei contenitori vengono fatti di plastica. L’ultima jungiara, Consiglia [Cunzìglije], ha operata fino a circa venti anni fa in un basso senza luce in Via Pietro Scrocco.

La cestaia [‘a cestàre]: costruiva, intrecciando canne tagliate a listarelle e rami di salice cesti e canestri di ogni misura, sporte con uno o due manici. Questi erano i contenitori casalinghi di un tempo, per il trasporto merci varie e l’esposizione ai mercati.

La seggiara [‘a seggiàre]: non costruiva sedie, ma ne impagliava i fondi.

La mammana [‘a mammàne – vammàne]: fornita solo di qualche rudimento pratico e dell’esperienza fatta nel tempo, aiutava le donne  partorienti. Alcune erano fornite di un grosso e  particolare seggiolone in legno su cui  far accomodare la partoriente.

Capitava così di vedere, per le strade della città, un ragazzino che trasportava la sedia sul capo e la mammana che lo seguiva.

Nel caso il parto presentasse complicazioni di sorta, si faceva ricorso alla campana di Sant’Anna, è ancor esistente, lungo la scalinata di accesso della nostra Cattedrale, i cui rintocchi diventavano una voce pregante e richiedente aiuto per la partoriente.

Capellera – Pelucchera: la parrucchiera a domicilio di un tempo. Aggiustava e pettinava i capelli delle donne. Con particolari forbici, a becchi lunghi concavi all’interno,  appositamente arroventate sul fuoco creava arricciature e ondulature.

Cameriera [‘a cammarère]: svolgeva le faccende di casa nelle famiglie benestanti e nobili.

Lavandaia [‘a lavannàre]: lavoro duro e massacrante, tutto a forza di braccia, che la lavandaia sovente svolgeva nella casa di chi la chiamava. Durava più di una giornata perché bisognava procedere all’ammollo dei panni, alla preparazione con la cenere di legno della lisciva, lo sbiancante, in cui panni di lino e pesante tela grossolana riposavano per una notte, poi lo sfregamento sull’asse dentato [ ‘u struculatùre ], quindi sciacquo e risciacquo e torcitura per far cadere l’acqua in esubero.

Stiratrice: fornita di appositi ferri da stiro, i più piccoli la cui base si faceva arroventare sul fuoco, i più grandi, a mo’ di caldaia, nel cui interno si introduceva carbone ardente e che poi si facevano roteare con una mano, e il braccio disteso per aria, attenti che durante la stiratura qualche scintilla non provocasse danni, o un più persistente passaggio e pressione non bruciasse [abburrìsse] la stoffa. Amido per dare più tenuta nel tempo a colletti e polsini di camice.

Ricamatrice: Vista buona, capo chino, ago e filo per impreziosire stoffe di ogni tipo e per i più svariati usi: tovagliato, vestiti e corredi da spose.

Sarta: Ce ne sono ancora, ma il confezionato, il su misura, i negozi grosse taglie ne hanno ridotto di molto il numero. Taglio e/o cucito era un’attività molto diffusa anche nelle famiglie.

Spigolatrice: un’attività stagionale svolta soprattutto dalle nostre terrazzane e dai ragazzi per assicurarsi farina e pane anche per l’inverno.Veniva effettuata raccogliendo le spighe rimaste sui campi dopo la mietitura. Alcune continuavano la raccolta anche dopo la bruciatura delle stoppie, o spigolavano nei campi di grano andati a fuoco, la farina ottenuta in queste circostanze era scura [“Farìne de gràne àrse” – Farina di grano bruciato], la farina dei più poveri, oggi rivalutata, ottenuta con la tostatura dei semi di grano e venduta a caro prezzo.

Nutrice: un’attività particolare nata a Foggia verso la metà del 1800 quando per far fronte al forte fenomeno dei bambini abbandonati (proietti) avanti a chiese, monasteri, case di nobili, il Comune istituì la Ruota, un luogo dove questi bambini potevano essere lasciti.

Il Comune poi provvedeva ad affidare questi bambini a donne, appunto le nutrici, che riscuotevano un compenso per la loro prestazione.

Il fenomeno dell’abbandono era originato da diverse situazioni, ma soprattutto dalla povertà e impossibilità di allevare un altro figlio. Ed è capitato, alcune volte, che la stessa madre, dopo l’abbandono si proponesse come nutrice, così da riottenere il figlio ed un compenso per allevarlo.

Balia: è la versione a pagamento di un accordo diretto fra una mamma che non aveva latte (non esisteva latte in polvere) ad un’altra che ne aveva in abbondanza  per il suo e per un altro, o che aveva perso il proprio bambino.

Mamma di latte [màmme de làtte]: un’altra versione delle precedenti, da non considerarsi come un lavoro, ma un rapporto di buon vicinato, di solidarietà fra due donne, dove una dava il proprio latte al figlio dell’altra, diventando per quest’ultimo e dallo stesso riconosciuta nel tempo come “mamma di latte”.

La maestra del panierino [‘a maèstre ‘u panarìlle]: anche questa, possiamo dire, un’attività di tipo solidaristico, al massimo compensata in natura. Dove una donna del vicinato, del quartiere, con un minimo di rudimenti scolastici, per permettere alle altre donne di andare a lavorare, teneva in casa propria i bambini di queste fino al loro rientro. Un asilo a tempo pieno di altri tempi.Il tempo veniva impiegato per qualche insegnamento di base, canti, racconti e filastrocche.

La fattucchiera [‘a fattucchère]: un altro lavoro-non lavoro, forse un’esigenza per quei tempi d’ignoranza e povertà, una conferma-risposta a quanto asserisce lo stesso Lo Re a proposito delle proletarie del Tavoliere: “…perciò lo scetticismo inconsapevole, che è il fondo della sua anima, spesso la salva dal bigottismo, mai dalla superstizione…”. La fattucchiera, con le sue incomprensibili litanie ed i suoi artifizi, cura i mali del corpo e dell’anima, prevede, sentenzia, fa e toglie l’ “occhiaturo”.

La pastaia [‘a pastajòle]: nella terra del Tavoliere, mamma del grano, è di cadenza il passaggio alla spianatoia, asse di legno [‘u tavelìre] dove impastare la farina. Arte molto diffusa in quasi tutte le famiglie, ma se ce n’era bisogno, c’era la “pastajòla”.

 

Le foto sono tratte dal libro custodito presso la Biblioteca Provinciale di Foggia la Magna Capitana : LE PROLETARIE DEL TAVOLIERE di Antonio Lo Re

 

 

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