Pèppe de furìje

Pèppe de furìje

(Cosa c’è dietro un modo di dire)

 di Raffaele de Seneen  e  Romeo Brescia

Infatti, anche da noi a Foggia era diffuso questo modo di dire: Pèppe de furìje, un po’ perso nel tempo, adatto a tracciare il profilo di una persona particolare.

Pèppe (Giuseppe) poteva essere chiunque a cui con immediatezza e facilità, rispetto a certi atteggiamenti, si poteva coniugare la parola “furia”, indicando così persona sbrigativa, frettolosa ma anche decisionista e un po’ audace. Insomma, uno che non ci pensa due volte e…. agisce.

E tale persona, in carne ed ossa, ci viene consegnata da lontani avvenimenti storici che interessarono il Sud e la nostra Capitanata, valicando i confini di un piccolo comune del Sub-Appennino per diventare un detto diffuso un po’ ovunque.

Personaggio dell’epoca senza alcun riferimento storico.

Si sta parlando di tale Giuseppe de’ Furia (o Di Furia) di Panni, e l’epoca è quella della seconda calata (occupazione) dei francesi (1806-1815) conosciuta come “Il decennio francese”, già preceduto nel 1799 dalla Repubblica Napolitana.

Con i francesi le cose non cambiarono per il “popolo basso”, e Giuseppe è fra quelli che più si espongono nel contestare lo straniero usurpatore, a chiedere il ritorno del suo re Borbone.

All’inizio si arma di una chitarra con la quale in piazza, indossata la coccarda rossa borbonica, si esibisce in canti e mottetti contro i francesi.

L’uso della chitarra ci fa propendere verso un Giuseppe artigiano, mani più gentili: sarto, barbiere e ciabattino, rispetto a quelle ruvide e callose di un bracciante-contadino.

In seguito si unisce con altri uomini armati per finire in un “esercito” locale. Scampa ad una retata di arresti, mentre gli altri vengono tradotti a Foggia, e lui si rifugia in quel di Faeto costituendo una sua banda armata di “briganti”.

Sono sempre “briganti” quelli che non accettano lo straniero in casa propria, così nel 1799, nel 1806/1815, così sarà nel 1861 con l’Unità d’Italia.

Giuseppe 34 anni, ammogliato e quattro figli, uno di questi, Domenico, lo segue nelle sue imprese come anche il genero.

Su Giuseppe e Domenico viene posta una taglia: 1.000 ducati se catturati vivi, 500 se uccisi.

Scacciati i francesi e tornato Ferdinando IV, Giuseppe e compagni usufruiscono di un decreto di indulto per cui possono costituirsi senza paura alcuna al Governatore di Napoli da cui ottengono un salvacondotto.

Giuseppe va oltre, e dopo aver reclamata una piena amnistia e protezione in quanto proclamatosi difensore del re, viene invitato tramite l’Intendenza di Foggia a recarsi a Napoli con tutta la sua banda presso la Commissione militare dove oltre l’amnistia otterrà l’incorporazione nell’armata dei fucilieri a guardia del Vallo di Bovino di cui diverrà comandante.

Ma, nonostante il sui impegno nel nuovo ruolo, le cose per Peppe non andranno per il verso giusto.

Vecchi rancori, delazioni, inimicizie lo porteranno man mano verso una situazione di isolamento: non ottiene alloggiamenti invernali per i suoi uomini che stanno a guardia del Vallo di Bovino, né gli arriva il soldo per pagarli, ad Agosto 1816 il figlio Domenico viene ammazzato, e ad ottobre lui corre a Napoli per rappresentare al re l’impossibilità ad espletare al meglio l’incarico ricevuto.

Dopo tre giorni di attesa, il Consiglio di Stato delibera l’arresto dell’intera squadriglia.

Giuseppe viene tradotto alle carceri della Vicaria e successivamente processato con tutti i suoi uomini davanti alla Commissione Militare di Capitanata, la condanna per Giuseppe è la “perpetua detenzione” da scontare all’isola di Ustica.

 

Fonti:

“Peppe de’ Furia e altri briganti di Panni” di A. Rainone

 

 

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